
L’incontro tra una donna e un bambino, la loro storia stretta in un tempo definito. Personale e professionale si intrecciano alla ricerca di un dialogo possibile, come cornice lo spazio profondo della periferia milanese. Un quartiere al limite estremo della città.
Patrizia Sordi
Dalla prefazione di Igor Salomone
Emozione. E’ la prima parola che mi esce dalle dita. Non di quei sentimenti facili che dal cuore risalgono per la gola sin sù nel naso, spinti da un melodramma qualsiasi di bene e male, di giustizia negata, di amore e morte.
Nè di quelli che gonfiano il petto e sfarfallano nella pancia per l’epica di qualche eroismo anche minore. L’emozione che suscitano le parole di Patrizia Sordi, è di quelle che vibrano di una frequenza bassa e intensa, che scorrono carsiche nel profondo del corpo, imprigionando il respiro nei mille rivoli di un racconto complesso e, insieme, quotidiano. Come l’educazione.
Patrizia, a ben vedere, non scrive: gioca. Lancia titoli minimalisti, apre con personaggi apparentemente secondari, una bidella all’ingresso della scuola, una signora di mezz’età su un autobus, vi indugia per qualche riga con una potenza descrittiva straordinaria, lasciandoci immaginare un esercizio di stile di quelli che servono a riempire gli spazi di un racconto altrimenti breve e spoglio, poi, nel giro di un paio di virgole, ci porta con un balzo nel mondo tracciato a gessetti sull’asfalto. E si apre un universo…
È l’inizio del buio che incanta, è lì dove tutto succede, dove novembre
con il ghiaccio striato apre al tonfo di un riccio che rovina tra i sassi
per franare tra le foglie d’ortica la sua corsa entusiasta ed ansante.
Sono i passi calzati di cuoio tra le foglie cadute, impastate alla terra
e non so dire, tra il folto dei rami, se il sole calando dilegua
o una nuvola cupa lo stringe.
Patrizia Sordi